Catalogo

Il catalogo della mostra è stato presentato durante l'inaugurazione del 7 settembre 2008. E' tutt'ora possibile prenotarlo su internet, sul sito della casa editrice "Il Sedicesimo".





L'amministrazione Comunale che mi onoro di presiedere, in collaborazione con l'Accademia di Belle Arti di Firenze, presenta il secondo anno consecutivo, il risultato del progetto "La terra di Chiusdino dipinta e appesa alla finestra".
L'iniziativa ha visto impegnati un gruppo di studenti della scuola di pittura del prof.Adriano Bimbi dell'Istituto fiorentino che ha scelto luoghi del nostro territorio come soggetti di pittura: luoghi che ci appartengono e che sono diventati, nei sei mesi in cui questi giovani artisti hanno soggiornato presso di noi, anche i loro luoghi, luoghi delle loro emozioni e della loro affezione.
Abbiamo visto questi giovani girare per le nostre strade, dapprima con gli occhi smarriti e curiosi del turista, poi sorpresi ad osservare e a disegnare gli anfratti più segreti del nostro territorio, e a fissarne su carta e su tela le emozioni. Contemporaneamente l'iniziale, normale diffidenza dei chiusdinesi verso chi è diverso da noi, estraneo al nostro quotidiano, si è trasformata in amicizia e forse anche in affetto.
Questi ragazzi, oggi, sono anche i nostri ragazzi-artisti, che hanno imparato ad amare il borgo e che sono diventati chiusdinesi di adozione.
Un grosso merito per il successo dell'iniziativa sta infatti nella capacità di accoglienza che anche in questo caso i chiusdinesi hanno mostrato, ma soprattuto nel lavoro, nella passione e nella dedizione con cui il prof. Bimbi ha seguito lo svolgimento della manifestazione, mentre l'intervento critico della prof. Alberti mi ha commosso per l'intensa partecipazione con cui ha tracciato il lavoro dei giovani.
Un riconoscimento particolare va naturalmente a tutta l'Amministrazione Comunale che ha sostenuto, anche quest'anno l'evento, facendosi carico di risolvere, insieme al Sindaco, tutti i problemi piccoli e grandi previsti e imprevisti che si sono presentati.
L'augurio è che questa collaborazione con l'Accademia di Belle Arti di Firenze, con il suo direttore Giuseppe Andreani e con il prof. Adriano Bimbi possa proseguire anche per il futuro con altri progetti e nuove iniziative.

Il Sindaco
Luciana Bartaletti

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Il rapporto tra arte e territorio è uno dei temi caldi del dibattito culturale della contemporaneità proprio per le questioni poste dalla società industriale e tecnologicamente avanzata in ordine alla produzione, tutela e conservazione dei beni artistici, con un importante sottotitolo relativo alla questione delle relazioni fra l'estetica e l'arredo urbano, giusta l'idea di un ripristino dell'umanesimo che passi anche per una nuova qualità della vita, una diversa compatibilità ambientale, un nuovo concetto di vivivbilità, dopo gli scempi perpretati da un certo livello di sviluppo socio-economico sulla realtà naturale oltre che su quella artificiale del complesso e spesso incontrollato sviluppo urbanistico ed edilizio che connota le grandi città del 900.
Tanto meglio quando questo rapporto passa attraverso la provincia che in qualche modo può rappresentare ancora un'area protetta, dove il tessuto storico-sociale costituisce una rete di garanzia forte dell'identità territoriale e culturale capace di filtrare e sedimentare i necessari progetti di trasformazione in una sorta di continuità non solo di carattere temporale tra il passato e il futuro.
Il Comune di Chiusdino è un caso specifico di quest'oasi della Toscana, al crocevia tra la Val di Merse e le Colline Metallifere, che assomma alla magia delle vicende medievali - fra l'eremo di Montesiepi e l'abbazia di San Galgano - con il persistente fascino e l'ubertosa generosità dei colli senesi, le ocre ora soleggiate ora brumose delle terre, i colori ed i profumi cangianti dei campi, a perdita d'occhio, nelle diverse stagioni, il borgo di pietra arroccato, custode "chiuso" e geloso di un'eredità storica condivisa con i signori di Volterra e Siena, prima, con i Medici e i Lorena di Firenze, poi.
Su questo squarcio d'identità è intervenuto il progetto artistico che quest'anno la scuola del prof. Adriano Bimbi ha appositamente ideato: un'operazione di decorazione urbana ispirata ad una riproposizione della pittura di paesaggio - quello della terra di Chiusdino - su cui ha lavorato direttamente in loco, da gennaio a maggio un gruppo di 12 giovani artisti, ospiti presso la foresteria del monastero di S.Galgano.
Lo studio della natura in tutti i suoi aspetti e nelle sue particolarità, anche nella natura artificiale, degli anfratti più reconditi, delle rughe e delle viuzze o delle architetture nobili ed importanti è diventato oggetto di produzione artistica, di bozzetti, disegni, dipinti.
Ma un'ulteriore originalità ha qualificato l'intervento, perché le opere elaborate e prodotte non sono semplicemente diventate materiale raccolti in una mostra, ma sono state direttamente trasfuse nel tessuto cittadino, diventando parte integrante del decoro urbano in modo di offrire una specie di continuità fra il paesaggio dipinto e l'assetto architettonico del borgo. Ogni luogo è stato studiato per diventare nuovo sito espressivo reso dal misterioso artifizio della pittura: così è sufficiente percorrere le viuzze e le stradine di Chiusdino o affacciarsi alle finestre, o sporgersi da un poggio, per incontrare direttamente la suggestione artistica resa negli scorci della natura circostante, piante, fiori di campo, filari di alberi, distese di grano, colli e cascinali.
Alla fine Chiusdino è divenuto un nuovo territorio dell'arte, ha cominciato ad assumere l'aspetto di un vero e proprio museo all'aperto. Manca ora un passaggio conclusivo: quei dipinti potrebbero presto assumere l'aspetto definitivo di affreschi o murales per diventare parte integrante del tessuto storico dell'affascinante borgo senese.
Operazione complessa, ma, conoscendo la determinazione del Sindaco - che ringrazio di cuore per l'impegno intellettuale con cui ha costruito il rapporto di collaborazione con l'Accademia di Firenze -, assolutamente possibile.
Il prof. Bimbi e i giovani artisti protagonisti del progetto, unitamente alla prof.sa Alberti per l'intervento critico, hanno mostrato ancora una volta la qualità delle idee che l'Istituto fiorentino sa mettere in campo. A loro l'onore e i complimenti per i risultati conseguiti.

Il Direttore
Giuseppe Andreani





FIRENZE - CHIUSDINO. SAN GALGANO - FIRENZE
di Adriano Bimbi

Per andare a Chiusdino da Firenze basta prendere la superstrada per Siena. Si lascia alle spalle Porta Romana e si attraversa tutto il Galluzzo; sulla destra si incontra la Certosa che incorona il suo colle come fosse un re e via, fino a Colle Val d’Elsa. Lì, a sud, si esce per Follonica, 82 chilometri. Poi, tutto a dritto, si scende giù fino a prima il Medio Evo. L’occasione ha voluto che facessi questa strada in tutte le stagioni, col freddo dell’inverno e col solleone dell’estate. L’ho percorsa per intero sotto un tremendo temporale, lampi e tuoni a volontà. L’ho conosciuta di sera, al buio, dove ho incontrato un superbo istrice che, impaurito dai fari della mia automobile, m’ha puntato tutti i suoi aculei, come fossero terribili lance. Via, via… Correre, correre! M’aspettano i miei studenti pittori! Saranno tutti lì, intenti a mettere in ordine le loro cose, a scegliere i lavori migliori da mostrarmi. Al mattino questa strada, se si fa un po’ d’attenzione, rileva storie. Lunghi rettilinei tra i campi coltivati, casali e torri sparsi qua e là, con geometrie perfette, ti sprofondano in memorie che la ragione non riconosce più ma alle quali, tuttavia, si avverte, per istinto, d’appartenere. Al bivio per Rosia può capitare che si incontri un altro secolo, quello della riforma agraria. Pioppi, disposti in filari lungo gli argini, segnano il confine tra i campi d’ocre d’oro del grano maturo. Ha un bel daffare quell’enorme trattore, per mieterlo tutto, quel grano. Domani di un altr'anno, quando ritornerò qui, sono certo, quel grano sarà lì, più d’oro che mai, a dispetto di tutti i santi. Poi, come un’improvvisa apparizione, al crocevia per Grosseto, uno strano segnale stradale, un monumento: sopra una base di travertino, una palla di ferro sormontata da uno spunzone quadrangolare che punta al cielo. Sotto, inciso sulla stessa pietra, con caratteri di un’eleganza d’altri tempi, Siena-Firenze-Grosseto. Tiro a dritto su per le colline, è un viavai di tornanti tra i boschi di quercioli; le ruote schiacciano le ombre a chiazze delle fronde degli alberi disegnate sull’asfalto dal sole. Una curva s’apre luminosa, l’altra segue buia, susseguendosi così, altalenandosi, come un dato di fatto, naturalmente, come i miei pensieri senza un fine. Più avanti, a mezzo colle, il castello di Frosini, come stampato su una vecchia cartolina anni trenta con i bordi sfrangiati e ritoccata a colori. In quell’enorme villa, ci puoi contare, si sono dati convegno Soffici, Papini e compagnia. Ma no, ma no, che sciocchezza!
Poco prima, c’è una vecchia bottega, al piano terra di un casolare tutto stonacato, con fuori, come reclame, un cartello scritto a mano: “Panini con porchetta”. È un pallido ricordo di quella di un tempo dove si trovava di tutto, dai chiodi alle civaie, dal sale al tabacco, baccalà e stoccafisso norvegese. Altro che supermercato! Là non si pagava, si segnava tutto su un quadernetto con la coperta nera.
Ce l’ho col sindaco, accidenti a me che ho accettato
questo lavoro senza considerare la distanza né il sacrificio che questi ragazzi devono fare per vivere laggiù. Ma chi me l’ha fatto fare! Maledetto tutto, maledetto me e la pittura! Poi, l’ultima svolta, e di nuovo campi larghi, aperti, luminosissimi dalla luce riflessa dei girasoli. Laggiù, San Galgano… sono arrivato. Parcheggio l’automobile nello spazio riservato al bar ristorante. Non c’è un’anima viva. Entro, ordino un caffè che mi viene servito con insolita indifferenza, pago ed esco. Di fronte, al fondo del viale di cipressi, la carcassa dell’abbazia che con la sua severa magnificenza troneggia tra i campi di girasoli. Attorno, la campagna, con i colli sullo sfondo, tranquilla, sopporta con disinvoltura questa ingombrante memoria. Poco più in là, su un poggio, l’eremo Monte Siepi segna nella cupola con cerchi rossi la propria aspirazione all’infinito. Mi incammino adagio; una mia gamba, dopo che mi è accaduto un accidente, va dove vuole, cosicché l’altra fatica il doppio per tenere la posizione. Arranco a diritto. In prossimità della facciata dell’abbazia, di lato al portone principale, quello che si apriva solo per le grandi cerimonie, mi immagino e mi vedo intento a mendicare. Dove sono ora tutti quei devoti che in quel tempo remoto si riversavano lì a pregare? Che siano volati in cielo dal tetto sfondato? A destra, dopo il melo, in fondo, sulla porta della foresteria, Andrea con Luisa e Niccolò m’aspettano da non so quanto tempo. Mi accolgono con un sorriso vero, il migliore dei saluti. Professore, è tutta la mattina che l’aspettiamo! Sono tutti su, mi dice Niccolò, invitandomi ad entrare. All’ingresso, dopo il portone, una larga scala di mattoni sistemati “a coltello” ci introduce negli alloggi sovrastanti. A destra, i locali di servizio, di recente restaurati e da loro occupati; a sinistra, le celle dei monaci, intonse, così come da sempre. Di reale ci siamo solo noi in un enorme stanzone tappezzato di studi, schizzi, abbozzi, disegni, foto e fotografie ritoccate. Si parla, si parla e forse, ogni tanto, qualche lume s’accende. Il loro entusiasmo è travolgente; cerco tra i miei ragionamenti la misura, quella necessaria per risalire dalle più profonde ed inevitabili delusioni. Mi giro e dalla porta aperta vedo in fondo al corridoio l’altro, quello delle celle là in fondo, in un silenzio di tomba. Penso che i monaci si siano stancati di tutto quel nostro vocio. Ayako ha preparato il pranzo, una zuppa di funghi. Rachele, Silvia e Nicoletta hanno apparecchiato alla meno peggio. Marianna e Matteo sono indaffarati in qualche compito. Pietro non fa che fotografare tutto ciò che vede. Si è fatto tardi, sono già da un pezzo passate le due del pomeriggio. Non mi resta che salutarli. Ma loro gentilmente mi invitano a restare ed io accetto volentieri. Francesco ha servito la zuppa, Yulia ce l’ha col sindaco che per me è una santa. Elisa non è potuta venire, non so per quale motivo. Claudio ha preferito, giorni prima, la Turchia e se n’è andato. Ho pranzato da Papa con quella zuppa di funghi, in una compagnia di prim’ordine. Dalla finestra della cucina si vede Chiusdino appollaiato là, sul colle, come una civetta sul gruccione. Me lo immagino tutto dipinto a colori smaglianti, come quelli antichi. Se solo per un attimo, potessi vederlo così com’era, nel suo splendore! È tardi, troppo tardi, devo ripartire. A malincuore saluto tutti e piano piano me ne vado. Lascio alle mie spalle tutta una giornata vissuta che mi ha riempito la testa fino a Casole d’Elsa. Lì faccio una sosta, compro una bottiglietta d’acqua e del formaggio pecorino, che mi dicono cagliato a freddo, per cena, da dividere con mia moglie. Colle Val d’Elsa-Firenze è un lampo. Ora so, ma lo sapevo anche prima, che tutto questo, in realtà, ha un senso e di certo un fine, quello di appagare la necessità tutta umana di sentirsi scorrere la vita addosso, qualunque essa sia. Quegli studenti, fedeli al principio di cantare ciò che conoscono, proprio questo stanno facendo, e danno forma, lì in quel luogo che pare santo nella sua mutevole bellezza, a ciò in cui credono più profondamente.




LA TERRA DI CHIUSDINO DIPINTA E APPESA ALLA FINESTRA
di Rosella Alberti

La parola paesaggio evoca immediatamente alberi, piante, fiori, panorami suggestivi, accattivanti tramonti. Ognuno di noi vorrebbe in casa un bel paesaggio “genere dei più ricchi, dei più piacevoli e dei più fecondi della pittura” così veniva definito da Diderot e D’Alembert, alla voce della settecentesca Encyclopedie. Certo il paesaggio è, di tutti i generi pittorici, quello che suggerisce stati d’animo e sensazioni di straordinaria immediatezza. Senza voler entrare, in questa specifica occasione, nel merito di un discorso che potrebbe rivelarsi molto più impegnativo di quanto non si sospetti, vorrei solo ricordare che, in epoca moderna, il paesaggio come genere nasce molto tardi rispetto alla più antica pittura sacra. Bisogna arrivare al Trecento per trovare le prime timide presenze di elementi naturali inseriti clandestinamente in opere di soggetto sacro.
L’attenzione per il paesaggio si avverte già nelle ricerche senesi del Trecento (Ambrogio Lorenzetti), nel gusto paesistico veneziano, nella sintesi prospetticoluministica di Piero della Francesca, nello sfumato di Leonardo solo per citare solo alcuni momenti chiave degli antefatti di un genere artistico che verrà codificato nel Seicento e che sostanzialmente nasce come “scoperta del mondo”.
Sono gli olandesi, nel XVII secolo, i primi ad eccellere nella rappresentazione del paesaggio (van Ruysdael), mentre in Italia i Carracci guardano alla natura e al paesaggio ma con occhio e sensibilità classicheggiante. Proprio dalla lezione dei Carracci prenderà avvio la necessità di piegare anche la rappresentazione della natura a quella urgenza idealizzante che tende ad informare di sè tutta la cultura del tempo e che vedrà diventare Poussin il maestro indiscusso di diverse generazioni fino all’ottocento.
In Italia, meta del “grand tour” (considerato viaggio indispensabile per la formazione di artisti ed intellettuali che potevano così completare la loro formazione nel contatto diretto con i monumenti della classicità), confluiscono artisti di tutta Europa che alla fine apprezzano di questo paese anche la dolcezza del clima, la particolare luce, i colori di una natura che non risparmia sollecitazioni compositive e cromatiche. Lentamente il paesaggio conquista una autonomia mai conosciuta prima, e schizzi e appunti di viaggio diventano approcci indispensabili alla ulteriore elaborazione di dipinti più complessi.
Nell’ambito della cultura settecentesca si origina il fenomeno del “vedutismo” che raggiunge gli esiti più alti in Canaletto, Bellotto e Guardi, mentre l’ottocento si apre alla visione del paesaggio e della natura, legati al temperamento dell’artista. Così sul verante inglese troveremo Turner e Constable, su quello tedesco Friedrich, su quello francese le prime sperimentazioni en plein air di Corot e della scuola di Barbizon che porteranno all’impressionismo e alle fughe di Gauguin verso le incorrotte isole del Pacifico.
La tendenza all’individualismo si accentua nel corso del Novecento. Ormai la rappresentazione del paesaggio è sempre più interpretazione dell’ambiente circostante partecipato dalla personalità dell’artista tanto da far nascere la definizione di “paesaggi dell’anima” la cui espressione coinvolge altri linguaggi come la poesia e la musica.
Poi dalla seconda metà del Novecento l’interesse per il paesaggio si radicalizza nelle problematiche ambientaliste (Land art): l’artista passa dalla rappresentazione della natura all’intervento diretto su di essa (Dani Karavan, Richard Serra ecc). Il margine fra estetica ed etica si fa sempre più leggero e l’arte entra nel giudizio di merito sulla realtà naturale che l’uomo continua a manipolare con grande accanimento e spesso con esiti tragici. La pittura di paesaggio sembra proprio passata di moda….
Ma……
Siamo in Toscana, luogo privilegiato in cui, proprio alla metà dell’ottocento, nel panorama preunitario, fermenti – dapprima soltanto locali ma destinati successivamente ad avere risonanza nazionale – alimentano un clima culturale che permette l’affermazione attorno, al 1860, di un cenacolo di intellettuali e artisti che, ispirati dall’esempio della scuola paesaggista napoletana diretta da van Pitloo, cominciano a sperimentare lo studio all’aperto, dedicandosi all’elaborazione di paesaggi fisici, di forte saldezza compositiva privi della retorica presente nella pittura coeva e tuttavia intrisi di un sospeso lirismo ripreso dalla tradizione quattrocentesca toscana, successivamente indagata con maggiore attenzione nell’opera del metafisico Carrà.
A partire dal 1861, a questo drappello toscano verrà attribuita la denominazione di “macchiaioli”, termine accolto con favore dal teorico del movimento, Telemaco Signorini, in quanto la finalità del gruppo non era tanto la ricerca della forma, quanto la resa delle impressioni dal vero mediante la giustapposizione di zone di colore, di “macchie”. E sarà il rappresentante di spicco dei Macchiaioli, Giovanni Fattori (di cui quest’anno ricorre il centenario della morte), a cogliere nell’alternarsi delle stagioni l’antico respiro antico della cultura agreste: a lui si deve infatti quell’attenzione verso il “vero di natura” che richiama il metodo scientifico dei quattrocentisti nello studio dell’anatomia applicato, come in Leonardo, alla struttura di una foglia o delle nuvole nel cielo.
La campagna fiorentina nei pressi di Piagentina e Castiglioncello, dove risiedeva il critico Diego Martelli sono i luoghi da cui prende vita l’opera di questi artisti. E siamo a pochi chilometri da Chiusdino, alle prime propagini di quella maremma toscana, dove “le tamerici salmastre sono piegate al vento di libeccio ”.
Ma è soprattutto nell’opera di Silvestro Lega che si avverte il richiamo alla grande pittura toscana del primo Rinascimento e soprattutto alla sacralità dei silenzi metafisici di Piero della Francesca di cui studia in profondità la struttura.
Solo in un secondo momento, negli anni ottanta, i Macchiaioli si avvicinano alla poetica naturalistica dell’Impressionismo, preferendo il brulicare della luce ai riservati silenzi dell’alta tradizione quattrocentesca.
Da questa storia nasce l’esperienza dei dodici giovani artisti della Scuola di pittura del prof. Adriano Bimbi dell’Accademia di Belle Arti di Firenze che hanno vissuto e soggiornato per diversi mesi nella terra di Chiusdino per elaborare e produrre un progetto d’arte e che oggi presentano i risultati di questa esperienza, centrata sull’idea di “scoprire” pittoricamente le terre di Chiusdino, captarne colori, luci, emozioni, e presentarle nelle strade dello stesso paese in un percorso appositamente individuato.
Ciascun giovane ha cercato di porsi nei confronti del luogo in maniera originale secondo le specifiche sensibilità, il diverso intendimento della pittura, la differente capacità espressiva, il personale approccio psicologico ed emotivo.
Così alcuni sono rimasti presi dal borgo, dal misterioso fascino delle sue stradine, dai dettagli di alcuni scorci e dal profumo della storia da essi emergente, perfino dalla poesia di alcuni manufatti urbani e architettonici (Marianna Rosi e Matteo Benetazzo, Elisa Zadi).
Altri sono stati attratti dai luoghi ma legandoli a particolari situazioni temporali, i diversi momenti del giorno o lo scandirsi delle stagioni (Nicoletta Gemignani, Silvia Baldocchi), cosa che ha consentito loro di ripresentarli decontestualizzati, creando una sorta di quinte sceniche in cui il paese finisce per esporre se stesso.
Ma Chiusdino non è solo case, strade, vicoli, piazzette e storia; è anche natura, boschi e campi di grano, distese di girasoli, uliveti e frutteti, vallate di stoppie, lontananze di colli e orizzonti di cieli. E intrecci di colori, atmosfere di luci che hanno incantato Ayako Harashima, sensibilità orientale alla linea e al cromatismo, e Francesco Rosati moderno interprete della tradizione toscana.
Infine cosa dire dello sguardo ravvicinato quasi intimo a rilevare la bellezza imbarazzante e incoffessabile nascosta nel dettaglio: sono questi i lavori di Yulia Knish, Rachele Niccoli, Luisa Spataro.
Fin qui luce, colore, la visione è soddisfatta.
E tuttavia vivere a Chiusdino coinvolge altri sensi, e come per incanto questi giovani artisti scoprono anche i suoni e i rumori di questa antica campagna: è la musicalità di una cascata che precipita con forza e scolpisce la matrice xilografica di Niccolò Barbagli, o l’armonia di una dolce brezza che dilata l’immagine di un paesaggio che si espande e invade anche il borgo (Andrea Ornani).
Insomma “fare paesaggio” è ancora una sfida dell’arte ed una storia non ancora finita (almeno finché l’uomo vorrà proteggere questa natura).